C‘è una terapia che non chiede troppe parole. Non chiede di rivivere il trauma, né di razionalizzarlo. Chiede solo di seguire uno sguardo, un dito, un movimento orizzontale.
Parlo dell’EMDR, ‘’Eye Movement Desensitization and Reprocessing’’, un approccio terapeutico tanto innovativo quanto “misterioso”, nato negli anni ’80 grazie all’intuizione della psicologa americana Francine Shapiro.
Tutto comincia con una semplice passeggiata, un pomeriggio del 1987 a Los Gatos, in California dove rifletteva su un ricordo doloroso. Mentre i suoi occhi seguivano automaticamente il fruscìo degli alberi da destra a sinistra, avvertì che la tensione interna scivolava via, come acqua che trova finalmente uno sbocco.
L’eccezionale intuizione fu che i movimenti oculari involontari avevano la capacità di attenuare il carico emotivo di pensieri disturbanti. Dentro quella semplicità, accadde qualcosa che ha dell’incredibile.
Da lì il passo fu breve verso una delle più efficaci terapie per il trattamento del trauma. Tuttavia, la sua profondità ha richiesto anni di studio per essere compresa. Potremmo dire l’occhio non mente. L’occhio ricorda. L’occhio cura?
Il nostro cervello è fatto per guarire. Ma non sempre ce la fa da solo. In caso di eventi traumatici, incidenti, abusi, lutti, catastrofi, ma anche umiliazioni ripetute o mancanza di accudimento, qualcosa si blocca.
Il ricordo resta “incapsulato”, come se non potesse essere digerito, elaborato, integrato.
L’EMDR interviene proprio lì: aiuta il cervello a “riattivare” il processo naturale di elaborazione, favorendo la risoluzione dell’esperienza traumatica. I movimenti oculari agiscono sull’attività neuronale e facilitano un tipo di rielaborazione profonda e sicura.
È neurobiologia.
Diversi studi neuroscientifici, tra cui quelli condotti presso l’Università di Amsterdam e pubblicati sulla rivista scientifica ‘’PLoS ONE’’, dimostrano che l’EMDR modifica l’attività delle strutture cerebrali coinvolte nell’ elaborazione delle emozioni, in particolare l’amigdala e l’ippocampo.
Una risonanza magnetica funzionale effettuata su pazienti con PTSD, “Post-Traumatic Stress Disorder”, ha mostrato una significativa riduzione dell’attivazione dell’amigdala, la nostra “centralina del pericolo”.
Allo stesso tempo, l’attività dell’ippocampo, deputato alla memoria contestuale e narrativa, aumentava.
In parole semplici: il trauma, da incubo vivo e incombente, torna ad essere un ricordo. Uno fra i tanti. Non più un “tiranno”.
Inoltre, nato per il trattamento del Disturbo Post-Traumatico da Stress, ha mostrato risultati sorprendenti anche in casi di attacchi di panico, di fobie, dolori cronici, lutti, recentemente utilizzato anche in contesti di emergenza umanitaria, con rifugiati e vittime di guerra. E persino in ambito sportivo per superare blocchi psicofisici.
L’OMS, “Organizzazione Mondiale della Sanità”, lo ha inserito dal 2013 tra i trattamenti d’elezione per il trauma psicologico.
Quello che rende questa straordinaria terapia non è solo la sua efficacia, ma la sua profonda silenziosità.
Il paziente non deve “raccontare tutto”, né analizzare l’evento. La terapia lavora a livello neurofisiologico e psichico insieme, come una danza tra corpo, mente e memoria.
Quando siamo traumatizzati, il sistema nervoso si attiva per sopravvivere. Ma a volte resta in “allerta perenne”, e non riesce a tornare alla quiete. L’EMDR è come un’onda gentile che accompagna il sistema verso la riva della regolazione. Rappresenta una rivoluzione. Non si basa sulla logica lineare, ma su quella integrativa.
Spesso il paziente afferma, dopo alcune sedute: “È come se lo vedessi da lontano. Non mi fa più paura adesso.”
Perché, è anche una porta verso la consapevolezza.
Una volta liberati dal peso emotivo si comincia a vedere meglio anche il resto: relazioni, desideri, sogni, ferite. È la vita stessa!
In una società che spesso ci spinge a “parlare tanto”, l’EMDR insegna il potere del sentire e del lasciar fluire. È una terapia del movimento, nel senso più ampio del termine. Movimento dello sguardo, delle emozioni, delle energie bloccate.
A volte mi chiedono: “Ma è davvero possibile guarire da un trauma con degli occhi che si muovono?” è la stessa domanda che posi al mio terapeuta anni fa.
Oggi, con fermezza anch’io rispondo: “No. Non sono gli occhi. È lo spazio che si crea mentre li segui. Quello spazio interiore dove il passato trova un altro posto. E il presente, finalmente, può respirare.”
E nella nostra epoca, dove tutto viene spiegato, analizzato, giustificato, l’EMDR ricorda che il corpo sa. Che l’inconscio sa. Che c’è una saggezza profonda nella psiche, se solo le permettiamo di parlare nel suo linguaggio.
Somiglia all’arte astratta: non sempre si spiega, ma si sente. Come un quadro di Kandinsky, pittore russo considerato il padre dello “spirituale nell’Arte”. Attraverso le sue opere dimostra con forza che la nostra esistenza non contiene solo concetti razionali, ma imbevuta di bellezza, dolore, metamorfosi. Così anche l’EMDR riorganizza l’indicibile. È quel ponte invisibile che accompagna il dolore verso la sua forma più alta, ossia la trasformazione.
Quando siamo traumatizzati, il sistema nervoso si attiva per sopravvivere. Ma a volte resta in “allerta perenne”, e non riesce a tornare alla quiete. L’EMDR è come un’onda gentile che accompagna il sistema verso la riva della regolazione. Rappresenta una rivoluzione. Non si basa sulla logica lineare, ma su quella integrativa.
